Un fazzoletto di vie patrizie arse da un sole fin troppo generoso, il cui ricamo è dato dai paramenti sacri delle chiese di Santa Maria delle Stelle, l’Annunziata e S. Biagio. Comiso trova il suo ristoro nei lanceolati gettiti d’acqua di Fonte Diana, sorgente di ellenica memoria, che, posta nei pressi delle terme romane, dona frescura a ogni angolo della città. Resti di una cuba araba fagocitati dal castello aragonese, manifestazione della tracotanza dei nobili Naselli  la cui cappella sepolcrale a otto punte in San Francesco all’Immacolata, ne cela, invece, tutta la pietà. Lungo i vicoli passeggiava quel macilento, ossuto e taciturno professore di liceo che fu al centro, con “Diceria dell’Untore” nel 1981, di un caso letterario: non capitava di frequente che un esordiente in età matura, vincesse un premio Campiello. Il successo improvviso, a oltre sessant’anni, aveva tentato di distogliere Bufalino da un’esistenza appartata, da cui traevano ispirazioni i temi del crepuscolo, dell’ombra, odissea dell’irrealtà e della malinconia. E con “Le menzogne della notte” giunsero, persino, un premio Strega e riconoscimenti internazionali. Spesso confinate in un’estrema provincia iblea, le sue opere appaiono quasi anacronistiche. Le libertà e i libertinaggi del linguaggio, velato da una patina nobile e antica, diventano, però, lo strumento per ricreare un Sud espressionistico e barocco, solare, sfrangiato di nero, in una Comiso che, disancorata, trova in Bufalino il faro dell’esistere.